In prossimità del quarantesimo anniversario dello scandalo della Loggia P2 con la scoperta degli elenchi contenenti circa 900 nomi di personalità eminenti in vari settori della vita italiana, a cominciare dalle istituzioni per finire alla politica ed ai servizi segreti ed alle Forze Armate, qualcuno compie un’operazione della memoria, da prospettive ovviamente differenti, Si riparla ancora di Gelli e dell’opera politica della loggia. Se ne è parlato abbastanza al punto che su questo voglio tacere perché non aggiungerei nulla di nuovo. Poco e male si è parlato, invece, di alcuni massoni che comparirono all’inizio di questa vicenda, portando un contributo di chiarezza e collaborazione che aiutò le autorità preposte, sia quelle giudiziarie che quelle istituzionali, la Commissione Anselmi, a conoscere e capire alcune dinamiche dell’ambiente massonico, dipanando la fitta nebbia che la segretezza dell’istituzione impediva di conoscere. Furono per questo dileggiati, irrisi, diffamati dai loro stessi fratelli di obbedienza. E’ opportuno precisare che teatro degli avvenimenti è il Grande Oriente d’Italia, la più numerosa comunità massonica italiana; le altre comunioni in questa vicenda ebbero un ruolo marginale. Questi massoni furono definiti “democratici” perché uno di essi, il più esposto, l’ingegnere Francesco Siniscalchi, ebbe a dichiarare dinanzi alle autorità inquirenti che era spinto dall’esigenza di tutela della democrazia nel nostro Paese. Da qui l’etichetta canzonatoria di “massoni democratici” che coinvolse anche gli altri massoni collaboranti.
Siniscalchi, più degli altri, dovette subire il martirio della reputazione facendolo passare come un “controiniziato”, “uno degli assassini di Hiram”. In realtà era massone di lungo corso, iniziato in loggia a ventitre anni nel 1951, e figlio di massoni, con una notevole preparazione culturale al punto da rivestire la carica di maestro venerabile della loggia “Hermes” e fondare la prestigiosa rivista “L’Ipotenusa” nel 1959, una solida morale ed una grande passione verso la verità e la giustizia, cardini della ricerca e della pratica massonica, e del socialismo di cui era seguace. Si era accorto che da quando l’esoterista ravennate, Giordano Gamberini, era stato eletto Gran Maestro nel 1961 il Grande Oriente si stava trasformando in qualcos’altro, da laico stava mutandosi in mistico. Lui si opponeva a questo cambiamento nella normale dialettica associativa fatta di confronti e di consensi, ma ormai la storia andava in quella direzione. Uno dei segni della deriva in cui si era incamminato il Grande Oriente era la figura di Licio Gelli, che non si peritò di combattere all’interno dell’istituzione massonica. Aveva scoperto dall’ amico Ferdinando Accornero della loggia “Giandomenico Romagnosi”, la stessa di Gelli, del fosco passato del pistoiese. Su questo aspetto sono divampate furiose polemiche tra chi asseriva che l’ingresso di Gelli , dopo iniziali perplessità fu accettato da tutti, salvo poi impegnarsi in una crociata per espellerlo, e chi invece, con maggiore precisione distingue che determinate notizie, successive alla caduta del regime fascista, non erano affatto note. Non fu, infatti, secondo il Grande Oratore dell’epoca, l’avvocato Ermenegildo Benedetti, l’adesione al fascismo o la guerra in Spagna che creavano ripugnanza, quanto la partecipazione convinta alla Repubblica Sociale Italiana per la quale aveva perseguitato giovani partigiani e renitenti alla leva., causandone sofferenze morte. Nell’arco di qualche anno dall’ingresso di Gelli Siniscalchi comincio a sentire rumors all’interno della comunione, che lo indussero ad esigere chiarezza dalla massima autorità dell’epoca, il gran maestro Lino Salvini, sul potere affidato a questo ambiguo personaggio. Siniscalchi tutelò i valori di libertà, uguaglianza e giustizia nell’ambito associazionistico, ed in tale veste si scontrò contro un muro di gomma. Risolse allora di appellarsi alle autorità civili, come le procure della Repubblica dove trasfuse in dossier tutto quanto era venuto a conoscenza chiedendo interventi dall’esterno. Con la scoperta degli elenchi in casa e nell’ufficio di Gelli esplose lo scandalo e fu ascoltato con attenzione dalla commissione P2, inoltre pubblicò, a firma del giornalista Gianni Rossi e Francesco Lombrassa, il dossier, che all’epoca era noto solo in ambito istituzionale, divulgandolo così all’opinione pubblica. Fu un atto di coraggio che mirava a preservare gli autentici valori massonici, impersonati da un pugno di uomini, dal degrado cui si assisteva. Invece fu stigmatizzato come una violazione dell’omertà, contrabbandata per segreto massonico. Ovviamente fu espulso e per trent’anni finì nel dimenticatoio, ritenuta definitivamente chiusa l’esperienza massonica, e di lui non si sentì più parlare fino a quando non venne comparve, invitato dal gran maestro Gustavo Raffi, ad una manifestazione del XX Settembre a Villa Il Vascello, sede nazionale del Grande Oriente a Roma, ove non solo gli fu revocata l’iniqua radiazione ma fu nominato gran maestro onorario, a riparazione degli errori commessi nei suoi confronti. Siniscalchi accettò la significativa nomina ed un interminabile ovazione dei presenti, tutti in piedi ad onorarlo. Morì un paio d’anni dopo con la soddisfazione del riconoscimento postumo.
Altro massone autorevole in questa guerra contro la loggia P2 fu Ferdinando Accornero, membro autorevole della loggia “Giandomenico Romagnosi”, iniziato nel 1945, già gran maestro aggiunto, già candidato alla gran maestranza, luminare della neuropsichiatria italiana. Accornero decise di porre la sua attenzione su Gelli quando nel 1971 in una riunione di giunta, il governo dell’Ordine del Grande Oriente, il gran maestro Lino Salvini ebbe a dichiarare che Gelli stava preparando un colpo di stato. Da allora Accornero indagò sui trascorsi e scoprì il passato di persecutore repubblichino, oltre a una relazione di ricatti al gran maestro. L’anno successivo affondò il colpo consegnando a Salvini un dossier su Gelli che doveva legittimare la sua espulsione, ma il colpo andò a vuoto perché Salvini non ravvisò alcuna colpa massonica in Gelli, confermando il sospetto di essere sotto ricatto. Anche Accornero rese pubblica la sua contestazione con interviste alla stampa per spiegare all’opinione pubblica il pericolo che incombeva sul Paese e le ragioni del suo comportamento, votato all’esigenza di vivere l’esperienza massonica in piena legalità, secondo i dettami della massoneria regolare anglosassone. Anche lui, come Siniscalchi, fu espulso con un processo-farsa dagli organi disciplinari (e disciplinati) dell’associazione. Fornì un chiaro contributo di chiarezza e di notizie alla commissione P2 anche prima della morte, avvenuta nel 1985.
Un altro massone che si è battuto con sincera passione democratica ed a tutela dei principi massonici fu Ermenegildo Benedetti, avvocato civilista di Massa Carrara, grande oratore. Alla Gran Loggia del 1973 denunciò le varie contraddizioni e le stranezze alle quali aveva assistito durante il suo mandato indicando « episodi sintomatici di una concezione della Libera Muratoria come strumento di potere e come istituzione dal sapore profano, dimentica della sua essenza iniziatica ed esoterica». Tutt’altro che un “comunista” o un rivoluzionario, quindi: voleva solo che fosse ripristinato il rispetto delle regole. Segnalò da Grande Oratore che i pericoli maggiori erano «il progressivo svilimento del costume massonico, dalla rinunzia della nostra tradizionale ideologia, da un’involuzione politica, che ci spinge all’omissione della doverosa intransigenza contro concezioni e movimenti liberticidi, che la storia, non solo massonica, ha condannato, e con i quali, da parte della Libera Muratoria, nessun dialogo (o collusione) potrebbe essere possibile». Ma non si limitò alla denuncia interna. Utilizzò i media di allora, stampa e televisione, per gridare l’allarme. Anche lui fu espulso con un processo farsa, ma volendo continuare l’esperienza massonica fu accettato da una loggia della Gran Loggia d’Italia degli ALAM a Massa Carrara.
Altro massone democratico fu il colonnello Siro Rosseti, già partigiano, che era iscritto alla loggia “Propaganda” e ne rivestiva il ruolo di segretario fino a quando non si rese conto di ciò che si trattava in realtà. Dette subito le dimissioni, e collaborò con le autorità inquirenti per l’accertamento della verità.
A questi dobbiamo aggiungere anche Lucio Lupi, uno degli ultimi massoni della vecchia guardia, di quelli che propugnavano laicità, cultura, fedeltà alle istituzioni della repubblica. Memorabili furono le sue polemiche contro i Gesuiti, Fu antagonista di Giordano Gamberini alle elezioni della granmaestranza. Lupi capì forse per primo la deriva cui era destinato il Grande Oriente e cercò di opporsi all’interno delle istituzioni. Si dimise dal GOI e pubblicò un libro di cronaca massonica degli anni 1960-1970 dal titolo significativo di “Massoneria Tradita”.
Sulla scia di Lupi, si aggregò Achille Melchionda, celebre avvocato penalista, che scriveva sulla rivista di Gamberini “Rivista Massonica” con lo pseudonimo di Natale Pesvelossi. Anche Melchionda denunciò all’interno un sovvertimento di valori e metodi che stavano trasformando l’istituzione massonica in una pericolosa consorteria, e coerentemente si pose in sonno, affidandosi al silenzio sino al 2013, quando pubblicò un memoriale, in cui spiegò i fatti, dal titolo significativo di “J’accuse” e con la prefazione del gran maestro Gustavo Raffi, che non fece in tempo ad onorarlo come Siniscalchi per scadenza del suo mandato nel 2014. Dopo, nessuno si interessò a lui, finché non sopraggiunse la morte nel 2016.
Ora tutti costoro sono morti. Osservando ciò che è accaduto dopo quel periodo, viene da chiedersi i massoni democratici siano riusciti nel loro intento di ripristinare moralità e legalità, con il terremoto che provocarono; oppure, se eliminato Gelli, il gellismo, come abito mentale all’intrigo affaristico ed all’eliminazione morale e burocratica degli avversari, persista tuttora nella più grande obbedienza massonica italiana.